DIETRO LE QUINTE DEL ROMANZO “LA STREGA DI DARK FALLS”

Molti considerano La strega di Dark Falls come il migliore fra i sei romanzi degli Invisibili.

Il suo successo inizialmente mi sorprese, perché, quando fui costretto a consegnarlo all’editore (per non rischiare di sforare la data di pubblicazione), ritenevo che avrebbe richiesto ancora parecchio lavoro e che quindi non sarebbe stato all’altezza de Il segreto di Misty Bay.

Le prime lettere dei lettori mi aiutarono a capire innanzitutto due cose: primo, la maggioranza lo preferiva a Il segreto di Misty Bay; secondo, e molto più importante, gli autori sono sempre gli ultimi a rendersi conto di cos’hanno combinato. Il più delle volte una buona storia nasce da una fortuita mescolanza di elementi che nemmeno il più grande alchimista saprebbe riprodurre artificialmente. Perché si tratta di autentica magia.

Questo ovviamente a partire da un assunto per me imprescindibile e cioè che il lettore sarà poi l’unico ad avere diritto di valutare il prodotto finito.

L’occasione della edizione De Agostini, mi diede poi la possibilità di apportate qualche aggiustamento di forma, nel mio incessante sforzo di utilizzare il minor numero di parole possibile, ma ho invece evitato modifiche più sostanziali per non rischiare di compromettere quello che, a quanto pare, si è trattato di un incantesimo riuscito.

Mi sembra perciò che questa sia una buona occasione per riflettere sul perché questo romanzo del mistero funzioni e, di conseguenza, rispondere pubblicamente a una domanda che i lettori mi pongono spesso via e-mail: come si fa a scrivere una buon romanzo?

Poiché, sono convinto che ognuno debba trovare la propria via e di certo io non possiedo la ricetta della formula magica. Mi limiterò a esporre alcune delle linee guida che ho adottato in questi anni per scrivere le avventure degli Invisibili.

Innanzitutto, per me un buon romanzo deve appassionarmi, avvincermi, cioè coinvolgermi emotivamente.

Per creare una storia generalmente inizio da un colpo di scena che mi possa sembrare abbastanza buono per costruirci attorno una trama; in altri casi parto invece da un argomento che vorrei affrontare.

Nel caso della “Strega di Dark Falls” tutto iniziò dal mio desiderio di raccontare una classica storia di streghe.

Cominciai perciò a ripensare a tutte le storie di streghe che avessi letto (nei romanzi o nei fumetti) oppure visto al cinema.

Mi vennero in mente subito due storie: la prima era un film allora relativamente recente, Il mistero della strega di Blair; la seconda era Barbablù, una delle fiabe dei Fratelli Grimm più spaventose, forse la più spaventosa in assoluto. Quest’ultima, per la verità, non aveva nulla a che vedere con le streghe, ma mi fu immediatamente chiaro che una parte della storia si sarebbe svolta in un lontano passato, non così lontano come quello in cui era ambientato Barbablù, bensì il 1700, quando a Salem, nel Massachusetts, si svolse uno dei più tragici processi che ebbero per imputate delle povere donne accusate di stregoneria.

Altro nodo essenziale era che, ne Il segreto di Misty Bay, Peter era rimasto troppo in penombra, rispetto a due personaggi forti come Douglas e Crystal. Decisi perciò che Crystal sarebbe dovuta scomparire nella prima parte dell’avventura, appunto per concedere più spazio a un personaggio importante, ma discreto, come Peter. Serviva perciò un buon motivo per tenere Crystal impegnata.

Nel frattempo però si era fatto strada un altro elemento per me fondamentale nella costruzione di una trama solida, ovvero il tema.

Ogni buona storia può essere infatti raccontata a partire dalla trama o dal tema, dall’argomento che vi si nasconde dietro. Questo elemento non dev’essere palese per il lettore, serve soprattutto all’autore per infondere anima nel racconto scrivendo di qualcosa che lo tocca nel profondo.

Naturalmente esistono anche ottime storie d’intrattenimento, che hanno il solo scopo di distrarci e farci divertire per un po’ (per esempio la maggior parte dei campioni d’incasso del cinema americano), ma non è questo il genere di storie che vorrei raccontare. Come lettore o spettatore ho sempre preferito libri, fumetti, film… che avessero su di me un impatto emotivo e, allo stesso tempo, mi aiutassero anche a riflettere su qualche tema “importante”. Oggi che sono diventato scrittore cerco di offrire ai miei lettori lo stesso tipo di esperienza.

In questo caso mi sembrava che la storia di una maledizione, come quella di una strega, rappresentasse un’ottima metafora per trattare di certi meccanismi sbagliati che si vanno talvolta a creare nelle famiglie, situazioni di sopraffazione o abuso che rischiano di tramandarsi di genitori in figli, di generazione in generazione. Come una maledizione, appunto. Il tema sarebbe dunque stato: l’importanza del dialogo tra genitori e figli e le conseguenze di quando invece manchi.

Potevo iniziare a scrivere. Come al solito, stesi la trama in una pagina, una pagina e mezza. Quando mi sentii soddisfatto, mi dedicai alla scaletta.

In fase iniziale preferisco sviluppare una scaletta divisa in capitoli, per evitare appunto di ritrovarmi in un vicolo cieco (anche se poi posso bloccarmi ugualmente, soprattutto sulla caratterizzazione dei personaggi)… La scaletta viene odiata da grandi autori come Stephen King e Ray Bradbury perché sostengono che tolga spontaneità a vicenda e personaggi; mentre è amata da altri come Terry Brooks secondo i quali, se non la si fa prima, si deve farla comunque dopo, quando ci si trova appunto impelagati da qualche parte e si devono tirare i fili di quanto abbiamo scritto (proprio King è un esempio lampante di un autore che in certi casi pare non sapere più come cavarsi d’impaccio ed è costretto ad “appiccicare” finali non sempre degni della sua fama).

La scaletta ha anche un’altra utilità: ritengo che la trama debba essere sviluppata come una composizione musicale in cui non siano presenti stonature. Avendo sott’occhio in poche pagine l’intero svolgersi della vicenda, è più facile rendersi conto se tutti gli elementi siano adeguatamente bilanciati. Se sono soddisfatto, se “il film” che vedo sullo schermo della mia fantasia mi pare avvincente, allora comincio a scrivere il libro, capitolo per capitolo.

Raramente non seguo l’ordine dei capitoli e questo a causa dei personaggi, che devo vedere crescere poco alla volta. Per non soffocarli, sono sempre pronto a modificare la scaletta quando questi “prendono vita” e pretendono di andare in direzioni che non avevo preventivato.

Nonostante il fatto che io abbia più facilità nella costruzione delle trame, ritengo infatti che l’elemento più importante di una buona storia siano proprio i personaggi: hanno spessore? Sono sufficientemente originali? Caratterizzati ognuno in modo diverso? Facilmente riconoscibili dal loro modo di agire e di parlare?

Ritengo sia stata fondamentale la lezione di Stan Lee nel creare, a partire dal 1962, supereroi come i Fantastici Quattro, L’uomo Ragno, gli X-Men e molti altri. Prima di allora esistevano già altri supereroi, cosa ebbero in più quei personaggi per rappresentare una vera e propria rivoluzione innovativa? La risposta la diedero anni dopo gli esperti del fumetto: con Stan Lee erano nati “supereroi con superproblemi”. Prima di allora i lettori sapevano che i loro beniamini non si trovavano mai in reali difficoltà, perché i loro superpoteri e o le loro abilità e disponibilità economiche (come nel caso di Batman) li avrebbero sempre salvati. Ma personaggi così possono tutt’al più divertirci, non coinvolgerci davvero, toccarci nel profondo, né possiamo riuscire a immedesimarci. Con l’Uomo Ragno & co. le cose cambiarono per sempre: all’improvviso era nato un personaggio con una normalissima vita privata, uno studente del liceo con i problemi di convivenza con i compagni di scuola e con le prime fiamme sentimentali; con una zia cui rendere conto delle frequenti misteriose sparizioni nella veste di supereroe. E poi, cosa non meno importante, il superpotere non gli aveva portato quella fortuna che lui stesso si era aspettato: fu causa della sua rovina perché ebbe come principale conseguenza la morte accidentale dello zio. L’Uomo Ragno è diventato perciò un eroe non perché il suo potere lo rendeva più forte degli altri, ma perché, nonostante questo, lui trovava il coraggio di andare avanti. Perché il suo superpotere era in realtà un handicap. La maggior parte dei personaggi di Stan Lee è costruito su simili premesse ed è quello che li rende interessanti, coinvolgenti.

Chi riesce davvero a sentirsi coinvolto dalle gesta dell’agente 007 nel ciclo interpretato dall’attore Pierce Brosnan, quando è bello, inarrestabile e immediatamente in grado di pilotare i veicoli più avveniristici che gli capitano a tiro, senza mai avere la possibilità di dare nemmeno un’occhiata al libretto di istruzioni? Non so voi, ma io non me la cavo in maniera altrettanto brillante, quando mi trovo alle prese con un nuovo smartphone

Le caratteristiche fisiche e psicologiche dei personaggi devono inoltre essere strettamente legate alla storia (ad esempio, nel film con Audrey Hepburn “Gli occhi della notte”, l’intera vicenda è incentrata sul confronto fra una non-vedente e l’assassino che le è penetrato in casa). Probabilmente risulteranno più interessanti i personaggi che subiranno una maturazione nel corso dell’avventura che modificherà il loro atteggiamento e modo di pensare. Ancor meglio se dovranno confrontarsi con un proprio limite fisico o mentale, come una fobia: terrore dell’acqua, per l’altezza… Riusciranno a superarla oppure no?

Allo stesso modo l’ambientazione dev’essere trattata alla stregua di un personaggio, essere al servizio della storia, necessaria e, possibilmente, sorprendere per la sua originalità (oltre al film citato, ho molti altri esempi in mente, come “La finestra sul cortile” di Alfred Hitchcock).

Per quanto riguarda la scrittura, i miei modelli sono autori come Truman Capote o Harper Lee, apparentemente semplici e comprensibili da tutti. Con il tempo però ho imparato che quest’apparente semplicità richiede moltissimo lavoro. Mi capita spesso di tagliare parti del testo su cui ho lavorato molto perché si rivelano non indispensabili. Per non parlare delle descrizioni che, per il mio gusto di lettore, devono essere ridotte all’osso.

Cerco di non dimenticare mai che la lettura è più impegnativa di seguire un programma televisivo: se un lettore si stanca, sarà più facile che perda il coinvolgimento emotivo e quindi posi il nostro libro per dedicarsi a qualcosa di più emozionante. In quel caso potrebbe non riprendere più la lettura.

Quando ho terminato il libro, inizia perciò il lavoro di revisione. Abitualmente revisiono quando sto ancora scrivendo, come dicevo taglio il più possibile e ricorro al dizionario dei sinonimi e dei contrari alla ricerca dei termini più appropriati per consentire al lettore di percepire immediatamente un’emozione o di visualizzare rapidamente quanto gli sto raccontando. Scoprire una parola che mi permette di eliminarne magari due o tre è per me una vera e propria conquista.

Terminato il lavoro di revisione, stampo il testo in cartelle (cioè 30 righe per pagina, 60 battute per riga, spazi inclusi, a interlinea 1,5) e spedisco il tutto alla mia editor Anna Lazzeri.

I libri “di genere” come i miei devono essere meccanismi il più possibile perfetti, perciò il parere dell’editor per me è importantissimo. La riempio di domande: ho scritto un buon libro? È appassionante? Facile da seguire? Tutto torna? In una parola, funziona?

Fatta la sua revisione, Anna mi rispedisce il dattiloscritto con le proposte di correzione o di eventuali modifiche scritte a matita, a indicare che sono libero di accettarle oppure no (ne accetto la maggior parte). Sarebbe sufficiente che io spuntassi le correzioni una per una o cancellassi quelle che non approvo, ma io preferisco riportare personalmente nel mio file quelle di cui sono convinto, poi ristampo e glielo rispedisco. Quando siamo soddisfatti e sentiamo di dover discutere le questioni più complesse o fare un’ultima rilettura, vado a trovare Anna, che, con infinita comprensione da parte della sua famiglia, mi ospita a casa per un paio di giorni, e rileggiamo tutto insieme. Come si può intuire, non sono uno di quegli autori convinti che i loro scritti siano intoccabili. Anzi, più mi si danno consigli per migliorare il testo e più sono contento. Dopotutto la bella figura la fa poi chi ha il nome in alto in copertina, no?

Con questo metodo di lavoro scrivere un libro mi impegna per circa un anno, raccolta di documentazione esclusa.

Alla fine di quell’anno sono di norma sfinito e inizia l’attesa più spasmodica: il nuovo romanzo piacerà ai lettori?

images4Torna al libro LA STREGA DI DARK FALLS

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